Il pane di Altamura (Puglia), prodotto seguendo l’antica ricetta e gli stessi ingredienti: grano duro, lievito madre, sale e acqua e cotto nei forni a legna e in pietra, si distingue per fragranza, sapore e aroma. Ha una crosta croccante spessa 3 mm e una mollica soffice di colore giallo paglierino. Si presenta con due forme tradizionali: una alta, accavallata, l'altra più bassa, “a cappello di prete”.
Il pane, elemento base del regime alimentare delle popolazioni dell’Alta Murgia, era impastato dalle donne, cotto in forni pubblici e marchiato con le iniziali del proprietario, per evitare che le pagnotte si confondessero.
La principale caratteristica del pane era la durevolezza, indispensabile per assicurare il sostentamento di contadini e pastori nelle settimane che trascorrevano lontano da casa, al lavoro nei campi o nei pascoli. Il pranzo di questi lavoratori consisteva infatti in una zuppa di pane con olio di oliva e sale.
Orazio nei poemetti “le Satire” nel 37 a.C., sembra fare riferimento a questo pane parlando del “pane migliore del mondo”.
L'attività di panificazione di Altamura trova conferma ne “Gli Statuti Municipali della Città” del 1527.
Anche l’attività molitoria era concentrata in Altamura, agli inizi del 1600 esistevano 26 impianti di trasformazione.
(Immagine: © Cristino Ranieri)
(Calabria ed Emilia Romagna) L'uomo usa le piante per curarsi e alimentarsi dall'inizio della sua esistenza così come gli animali: probabilmente fu proprio osservando questi che nella preistoria venne scoperto come alcune erbe potessero guarire alcuni malanni e altre soddisfare il bisogno primario di nutrirsi.
Depositarie di tali conoscenze sono state soprattutto le donne che le hanno tramandate di generazione in generazione e, tramite il passaparola, sono tutt'oggi ricorrenti anche se non si avvalgono di alcun criterio o studio scientifico.
Tali conoscenze nel Medioevo potevano rivelarsi pericolose: tante furono bruciate come streghe e altro non erano che donne che sapevano curare con le erbe.
Anche la conoscenza e l’uso alimentare delle erbe spontanee è antichissimo, esse rappresentavano e rappresentano un simbolo della bontà della natura che offre all’uomo vegetali senza il bisogno di coltivarli e che, nei periodi di carestia, hanno assicurato la sopravvivenza dei poveri e hanno arricchito la dieta costituita di farinacei. Negli ultimi anni assistiamo ad un crescente interesse per la ricerca e il consumo di erbe spontanee anche se la loro conoscenza e impiego è patrimonio di poche persone che custodiscono le ricette e le tramandano oralmente di generazione in generazione.
(Immagine: © Iside Cimatti)
Le launeddas sono uno strumento musicale, tipico della Sardegna meridionale, costruito con tre canne di fiume, di diverse dimensioni e spessore, molto antico. Il ritrovamento di dipinti e bronzetti nuragici raffiguranti il suonatore di launeddas testimonia il loro uso in tempi lontani.
Le launeddas vengono suonate con il fiato continuo, tecnica che consiste nell'accumulo, durante la fase di espirazione, di una riserva d'aria all'interno delle guance che viene espulsa nel momento in cui il suonatore inspira col naso, in questo modo è possibile incanalare una colonna d'aria ininterrotta all'interno dello strumento.
Il repertorio delle launeddas è legato ai momenti di festa in cui svolgono una funzione socializzante. Nelle occasioni religiose le launeddas accompagnano la liturgia della Messa e le processioni. Ma è nell'accompagnamento delle danze e dei balli, che si manifesta l’espressività di questo strumento.
Oggi molti sono i giovani che si avvicinano a questo strumento grazie alla presenza di scuole.
Le launeddas dal vivo possono essere ascoltate in feste patronali come la sagra di Sant'Efisio di Cagliari (1 maggio), quando il suono di decine di launeddas precede il passaggio del Santo lungo la sua processione verso il mare.
Molti sono oggi i costruttori di launeddas.
(Immagine: © Maria Eugenia Laria)
Molte donne, senza prospettive di lavoro e di studio, ebbero un futuro grazie alle scuole di ricamo, cucito e tessitura di Novilara (1929) e Candelara (1942) dove, oltre ad imparare un mestiere, ricevettero una formazione attraverso letture, canti, preghiere, sport e attività teatrali. Testimonianza del loro lavoro si trovano nel museo della Scuola Parrocchiale. In un salone ci sono materiali per eseguire manufatti di cucito e ricamo. Alle pareti sono esposti diversi tipi di merceria. Un corridoio contiene lana cardata e non, di vari colori. Infine c’è la stanza delle cardatrici elettriche, vietata alle ragazze perché pericolose. Nella stanza della committenza ci sono immagini che documentano la vita nelle due scuole, esemplari di macchine industriali e manufatti vari. Un angolo del museo è dedicato a Egizia Bargossi, ideatrice dell’Arte Tessile, insegnante, abile artista, apprezzata in Italia e nel mondo. La visita del museo fa ripercorrere la vita delle nostre antenate, apprezzarne il lavoro e la grande competenza, comprendere i principi primi del cucito, del ricamo e del tessuto che sono alla base di ciò che acquistiamo oggi con noncuranza. Oggi una scuola di ricamo rivolta a ragazze e ragazzi raccoglie molti consensi.
(Immagine: © Maria Rosa Tomasello)
I protagonisti di questo carnevale (Basilicata) sono: l'Orso (Urs), l'Eremita (Rumit) e la Quaresima (Quaremma). Nel medioevo la gente viveva frequenti carestie mentre i ricchi condizionavano la vita degli abitanti. L'Orso identificava l'uomo ricco e fortunato, l'Eremita il povero, e la Quaresima l’anziana signora colpita da malasorte. Ogni maschera rappresentava una condizione sociale. Durante la festa ogni personaggio ha un ruolo diverso, l'Eremita punzecchia la gente con un bastone, l'Orso incute timore con la sua mole e il suo carattere selvaggio e stordisce tutti con un campanaccio, Quaremma cammina lenta e triste tra la gente. I Rumit girano per il paese la domenica prima del Martedì Grasso, quando prende vita “LA FORESTA CHE CAMMINA”: gli uomini-albero lasciano il bosco e girano per il paese strisciando un bastone alle porte e rimanendo in silenzio. Chi riceve la visita dona loro quel che può in cambio di un buon auspicio. Il Giovedì Grasso sfilano le maschere tradizionali e il corteo della “Zita” che riproduce il matrimonio contadino con 'A Zita accompagnata da lu Zit seguiti da prete, chierichetti e invitati. Il corteo percorre le strade del paese ballando e scherzando, i ruoli sono invertiti: le donne impersonano i ruoli maschili e gli uomini quelli femminili.
(Immagine: © Antonella Romaniello)
Il monte Soratte (Lazio), nella forma di un uomo che dorme e nei suoi oltre 600 metri, prende fuoco e, tutt’intorno, il paese è in festa. Dal 1814, la festa della Madonna di Maggio si ripete ogni anno l'ultima domenica di Maggio, culminante nella Fiaccolata di Monte Soratte. Nei giorni precedenti, le strade della città sono addobbate con fiori e luci e centinaia di fasci di canne, appositamente raccolte già da febbraio, sono sistemate lungo la montagna.
La sera della festa, quando passa la processione, tutte le canne vengono accese offrendo uno spettacolo unico ed emozionante seguito da un'allegra e colorata esplosione di fuochi d'artificio: fuochi naturali e fuochi d'artificio si accendono concludendo una giornata di grande festa. Questa celebrazione riunisce la devozione alla Vergine Maria e gli antichi culti del fuoco nel cuore della primavera, legati alla fertilità della terra. Sorprendentemente, per la sua particolare conformazione, il monte Soratte era già considerato un luogo sacro in epoca preromana.
(Immagine: © Patrizia Zenga)
Le prime notizie di tale tradizione risalgono al 1288, quando la festa di S. Ambrogio si svolgeva presso Santa Maria Maggiore (Milano). Le origini dell'attuale festa risalgono al 1510 quando giunse in città Giannetto Castiglione, inviato dal Papa per riaccendere la fede nei milanesi.
Giannetto, temendo di non venire accolto dalla popolazione che non aveva simpatia per il Papa, approntò pacchi con dolciumi e giocattoli che distribuì ai bambini radunati intorno al corteo che raggiunse la Basilica di Sant'Ambrogio attorniato da una folla festante. Era il 7 dicembre.
Da allora si cominciò ad organizzare, nei giorni della festa di S. Ambrogio, la fiera degli “Oh bej! Oh bej!” con bancarelle di vestiti, giocattoli, e prodotti gastronomici: mostarde, castagnaccio e i firòn: castagne affumicate, bagnate di vino bianco e infilate in lunghi spaghi.
Il nome “Oh bej! Oh bej!” è dovuto alle esclamazioni di gioia dei bambini alla vista dei doni: l'espressione "Oh bej! Oh bej!" si traduce in italiano "Oh belli! Oh belli!".
Inizialmente la fiera si svolgeva presso la Piazza dei Mercanti; nel 2006 fu spostata presso il Castello Sforzesco.
Oggi le bancarelle degli Oh bej! Oh bej! espongono prodotti di artigianato, di antiquariato e dolciari.
(Immagine: © Farnaz Taher Shams)